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La lampadina galleggiante di Woody Allen con Mariangela D’Abbraccio
La scena si apre con una luce azzurra che fluttua nel buio, la “lampadina galleggiante” del titolo. Mariangela D’Abbraccio in scena al Quirino per interpretare questa commedia di Woody Allen: “un dramma comico” che unisce al consueto umorismo toni più intimistici e malinconici.
“La lampadina galleggiante” è il titolo di una commedia di Woody Allen quasi sconosciuta in Italia, andata in scena al Teatro Quirino di Roma con la regia di Armando Pugliese. La scenografia di Andrea Taddei riproduce l’interno di un povero appartamento che si affaccia sul muro cieco dei palazzi di fronte. Siamo nel 1954 in una periferia squallida di New York dove si vive di espedienti e di sogni. Nello specifico, gli espedienti e i sogni di una famiglia ebrea piuttosto singolare. C’è il padre, che aspetta di svoltare vita vincendo alla lotteria e nel frattempo, costantemente in fuga dagli strozzini, si arrabatta come cameriere in un locale amoreggiando con una delle cameriere; c’è la madre che, messe da parte le ambizioni artistiche di quand’era ragazza, cerca di uscire dalla miseria tentando improbabili operazioni commerciali.
A completare questo strambo quadro familiare ci sono poi i due figli: il minore, adolescente irrequieto e insofferente, e il maggiore, Paul, afflitto da balbuzie, che riesce a placare la sua insicurezza solo esercitandosi nell’arte della magia. I suoi numeri, infatti, non sono pensati per il pubblico: sono il suo modo di tenere sotto controllo la realtà conferendo leggerezza e poesia al grigiore della vita quotidiana.
Tra i temi cari a Woody Allen e spesso presenti nei suoi lavori, oltre a quello della magia c’è anche quello delle relazioni familiari, descritte con tutto il loro carico di conflittualità. Emerge, tuttavia, la centralità del ruolo materno, fulcro della vita domestica, nel bene e nel male. La Enid interpretata da Mariangela D’Abbraccio, nella lettura del testo data dal regista, potrebbe benissimo essere scambiata per una mamma partenopea, che nel suo delirio di onnipotenza, per diritto acquisito con la gestazione e il parto, è convinta di essere l’unica in grado di conoscere a fondo i desideri e le aspirazioni dei propri figli. A sapere cosa è meglio per loro, cosa potrà renderli felici.
Il primo importante snodo narrativo è qui, nel tentativo di lanciare Paul nel mondo dello spettacolo, approfittando dell’imprevisto incontro con Jerry, un sedicente impresario a caccia di giovani talentuosi. L’esibizione del giovane mago, annichilito dalla pretesa della madre di condividere il suo fragile mondo di sogni, sarà un disastro. Eppure, durante la cena organizzata per l’occasione, la conversazione tra Enid e l’impresario, aiutata anche dall’alcool, porterà due solitudini a sfiorarsi, a rendere possibile per un attimo il pensiero di un nuovo amore e di una nuova vita. Il vestito buono e il filo di perle di Enid, messi solo per dovere di ospitalità, come le giacche imposte ai figli, diventano segno di una riscoperta femminilità, e volteggiano, lievi, nei passi di danza accennati con Jerry. Una femminilità nascosta, infagottata nelle pesanti giacche invernali o in abiti informi e di cui, guarda caso, solo lo svagato Paul sembra accorgersi, riferendo alla madre degli sguardi del vicino di casa. La magia diventa allora metafora dell’arte: non è fuga dalla realtà ma lente d’ingrandimento capace di scorgere in essa ciò che c’è di più vero.
Nella commedia ritroviamo il ritmo e il sottile umorismo tipico delle opere di Woody Allen ma anche l’ “espressione teatrale” – così Pugliese in conferenza stampa – “di una riflessione più drammatica e approfondita” evidente nel finale dolce-amaro, in cui la rassegnazione sembra prevalere su tutto.
Subentrata in tempi brevissimi a Giuliana De Sio, che si è ammalata alla vigilia delle repliche romane, Mariangela D’Abbraccio ha affrontato la sfida con grande personalità, mantenendo la promessa fatta in conferenza stampa, di andare in scena “con tutto il suo istinto”. Tuttavia, ci è sembrato che si debba ancora perfezionare la prima parte dello spettacolo, a tratti frenetica e troppo urlata; l’attrice offre il meglio di sé nei toni drammatici della seconda parte, quando riesce davvero a far entrare gli spettatori nelle pieghe dell’animo di Enid.
Forse è stata una scelta di regia quella di “caricare” il personaggio del padre – interpretato da Mimmo Mancini – per sottolinearne l’immaturità ma la sua esuberanza fisica e gestuale ci è sembrata eccessiva. Svampita quanto basta la cameriera Barbara Giordano, sornione e istrionico l’impresario Fulvio Balzarano; buoni i tempi e le capacità espressive del giovanissimo Luca Buccarello; brillante Emanuele Sgroi, in una parte piena d’insidie nella quale ha saputo muoversi con grazia e ironia e al quale, solo per la giovane età e l’inesperienza si possono perdonare l’eccessivo dimenarsi e salutare al momento dei ringraziamenti.
Mariella Demichele
[vintage] Il teatro secondo Pirandello
Il teatro secondo Pirandello
Dopo cinque anni dall’ultimo allestimento d’autore di Questa sera si recita a soggetto ad opera di Luca Ronconi, Massimo Castri si prende la soddisfazione di mettere in scena quello che è forse il più controverso, difficile, testo della trilogia pirandelliana del Teatro nel teatro.
Il grande numero di attori e di artifici scenografici, e il conseguente alto costo di produzione, fanno di questo spettacolo il meno rappresentato tra i classici di Pirandello.
Il risultato è tipico del grande teatro di tradizione, sfarzoso quanto basta, farcito di personaggi, scenografie altisonanti e marchingegni. Processioni, balli, musica, opera e tragedia si scambiano i ruoli in questa lunga messinscena di tre ore.
Lo spettatore è catalizzato dalle situazioni che si svolgono: il regista che sale e scende dal palcoscenico, gli spettatori-attori nei palchi, una processione religiosa che attraversa la sala, gli sketch che si svolgono anche sulle scale, nel bar e nel foyer del teatro. Castri fa un uso a 360 gradi dell’edificio teatrale, anche se non mostra niente di nuovo, l’abbattimento della quarta parete è roba già vecchia di un secolo.
Lo spettacolo inizia con una serie di botta e risposta tra il regista e gli attori che devono recitare a soggetto, prosegue con scene dinamiche e divertenti, sempre insistendo sul teatro nel teatro rappresentazione, e sul binomio attore-personaggio, e sulla polemica fra attore e regista. Il finale ha un alto tasso drammatico: nella prigionia casalinga di Mommina, conseguente all’eccessiva gelosia del marito Rico Verri, c’è tutta la drammaticità di Pirandello e della sua terra amara, avara. La Sicilia, con le sue corna e le sue passioni, si sente per tutto il dramma.
Castri mescola con sapienza ciò che mescola Pirandello: il teatro, l’opera, il jazz, la musica da camera.
Valeria Moriconi, nei panni dell’attrice caratterista-signora Ignazia, sembra fuori ruolo, l’interpretazione del Dottor Hinkfuss (Vittorio Franceschi) e di Rico Verri (Sergio Romano) troppo schematizzate e di maniera. Molto brave le attrici che interpretano le figlie frivole, canterine, ballerine e viziate. Merita una citazione particolare l’interprete di Mommina, specialmente quando, nella scena finale della segregazione e dello sfogo con i bambini, sfoggia una prestazione superba: urla, ride, si contorce, spiega le ragioni della sua prigionia, parla del suo amore per il teatro. Manuela Mandracchia ci comunica il suo dolore di personaggio, e la follia che ne deriva, attenuata dall’innocenza dei due figli sulla scena, sembra quasi realtà. Anche il vecchio attore brillante-Sampognetta è interpretato ottimamente, incapace di morire come è, da Alarico Salaroli.
Un Castri diverso dall’ultima rappresentazione al Metastasio, quel Madame De Sade classico, di parola e soporifero. Questa sera ha lasciato decisamente il segno nella non perfetta stagione dello Stabile pratese. [sp]
Questa sera si recita a soggetto
di Luigi Pirandello
regia Massimo Castri
scene e costumi Maurizio Balò
con Valeria Moriconi, Vittorio Franceschi, Sergio Romano, Manuela Mandracchia, Pierluigi Corallo
produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo/Teatro di Roma
Visto a Prato, Teatro Metastasio, gennaio 2004
[vintage] Chiti e suoi ragazzi
Nell'attesa che ripartano le stagioni e di conseguenza il nostro Invito A Teatro con i consigli settimanali su Roma, Milano, Toscana e il Nord Est, propongo un'altra vecchia recensione mai pubblicata.
I ragazzi di Via della Scala [photo: arca-azzurra.it] conclude la trilogia intitolata La recita del popolo fantastico, iniziata da Ugo Chiti con Il Vangelo dei buffi (1996) e proseguita con Quattro bombe in tasca (2000).
Con questa nuova produzione, targata Metastasio e Arca Azzurra Teatro, il regista fiorentino conferma la sua vocazione di sperimentatore in lingua toscana; egli fa della sua lingua madre una bandiera, un vessillo, e la porta all’estremo, utilizzandola con armonia, unendola a scelte scenografiche e di regia all’avanguardia. Il cast è un mix variegato ed affiatato di attori affermati, con esperienze anche nel cinema, e giovani promesse; tutti rigorosamente toscani. La scuderia-Chiti è ormai un punto di riferimento nel panorama teatrale nazionale: i volti sono all’incirca gli stessi delle precedenti produzioni.
Da Firenze parte Ugo Chiti, esattamente da via della Scala, nel quartiere popolare di Santa Maria Novella, per raccontare la vita di cinque ragazzini che si ritrovano sotto casa a raccontarsi storie di paura, circondati da strane figure, ovvero gli abitanti del medesimo condominio, che fanno le loro fugaci apparizioni.
Queste quattro storie, di boccaccesca memoria, si materializzano sulla scena in un livello più interno rispetto allo spazio scenico principale (spazio che Chiti ingrandisce portandolo in platea, dentro la platea, per indicare l’androne, il pianerottolo dove giocano i ragazzini).
Le storie sembrano fiabe, così grottesche e “scellerate” che fanno da contrappeso alla quotidianità del normale vivere nella Firenze artigiana e popolare degli anni cinquanta, dove la vicenda è ambientata.
Questi ragazzini hanno un amico, Giovannino, che gioca con loro pur essendo più grande: è un sedicenne mentalmente ritardato che si diverte con un finto martello. Ma è anche il fulcro della storia: attraverso i suoi occhi infantili lo spettatore s’immerge nei piccoli grandi drammi che sono raccontati; infatti egli non esce mai dalla scena mentre dietro gli scorrono le rappresentazioni degli avvenimenti.
I quattro bambini, a turno, fanno le vesti del narratore: ci sono San Giuliano che uccide i genitori oppressivi, la mamma divoratrice e diavolo, il figlio principe cinghiale e cannibale, l’avaro pervertito. Queste storie sono raccontate per scacciare, esorcizzare la paura, e ricordano le novelle del Decamerone che venivano narrate, sempre a turno, per fuggire la noia e la peste.
Chiti sprigiona fantasia, ilarità, orrore e violenza, ma pone l’accento anche su questioni più sociali, umane. Ne sono un ottimo esempio lo stesso Giovannino, condannato ad un’eterna adolescenza, incompreso, deriso ed emarginato. Quest’anima pura, indifesa, si scontra con l’altra figura “deviata”: Emilio il cieco, un personaggio ambiguo, viscido, che è violentato e violentatore. Violentato dai preti che lo sottomettevano al buio in gioventù, adescatore a sua volta di uno dei bambini di via della Scala. Le rappresentazioni dei due emarginati sono sicuramente le più riuscite (Dimitri Frosali è il cieco ma anche l’avaro, Maurizio Lombardi è Giovannino) anche se tutti gli attori forniscono prove di spessore.
Chiti il bizzarro, Chiti il contestatore, Chiti l’onirico, Chiti il visionario ha fatto di nuovo centro; il suo teatro è magia, racconto, emozioni.
I ragazzi di Via della Scala
ovvero cinque storie scellerate
testo e regia di Ugo Chiti
con Massimo Salvianti, Lucia Socci, Dimitri Frosali, Andrea Costagli, Giuliana Colzi
e con Maurizio Lombardi, Teresa Fallai, Alessio Venturini, Daniel Dwerryhouse, Francesco Mancini
produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana/Arca Azzurra Teatro
Visto a Prato, Teatro Metastasio, il 10 dicembre 2003
Preludio sulla soglia
Ascoltare. Questa la prima azione richiesta agli spettatori che anche oggi, numerosi, sono arrivati per assistere ai diversi spettacoli teatrali che, quest’anno, durante il Volterrateatro 2011, per una felice intuizione del suo direttore artistico, Armando Punzo, si svolgono tutti all’interno del carcere. Dall’alto delle mura dell’imponente fortezza medicea, secolare luogo di reclusione, generalmente immobile e silenzioso, un fantasma che incombe sulla città, si diffonde nell’aria il potente richiamo di percussioni; i musicisti del gruppo Quartiere Tamburi suonano con energia i loro strumenti, rendono acusticamente presente, viva, l’esistenza come organismo pulsante nel tessuto civile ed architettonico della città di quello che nell’immaginario comune è il luogo della rimozione per eccellenza: il carcere. È questo uno dei primi “buchi nella realtà” – citazione di Deleuze cara a Punzo – che si apriranno davanti agli occhi degli spettatori durante queste giornate, l’ evidente trasformazione, non solo simbolica, ma concreta, dell’asfissiante realtà carceraria, in luogo capace di produrre e trasmettere cultura. Gli spettatori, chiamati a raccolta dal potente richiamo sonoro, cominciano a radunarsi davanti al portone d’ingresso del carcere. I musicisti si affacciano dall’alto delle mura, battono ritmicamente le loro bacchette, si sottraggono nuovamente alla vista e ricominciano a suonare in un ripetuto gioco fortemente coinvolgente. I corpi non possono fare a meno di muoversi; anche i più timidi, magari in modo impercettibile, si lasciano prendere dalla musica. Sguardi verso l’alto, sorpresi, curiosi, divertiti. Applausi. E poi, improvviso, il silenzio. Un gruppo di bambini vestiti di bianco si fa spazio tra il pubblico. Tre bimbe in fila, una accanto all’altra, si dispongono alla fine della rampa d’accesso al carcere, poco prima del portone d’ingresso, pronte per danzare; dietro di loro, due giovanissime musiciste, una al violino e l’altra al sax, si inseriscono nella melodia suonata al pianoforte da un loro coetaneo che, assorto e concentrato sul suo strumento, ricorda il malinconico Schroeder delle strisce di Schultz. Comincia la danza, movenze stilizzate, lievi: le mani sfiorano gli occhi, il cuore, braccia tese verso il pubblico, verso l’alto, in un gesto delicato di offerta, di condivisione.
Candore d’infanzia e di corpi ancora acerbi, cromaticamente interrotto solo dal velluto rosso della piccola panca su cui è seduto il giovane pianista e da un gruppo di palloncini colorati legati alla spalliera della sedia che serve da supporto per il pianino.
Una scena privata di qualsiasi connotazione spazio-temporale, di elementi realistici o didattici che, proprio per questa sobrietà, consente agli spettatori di operare il distacco da sé necessario per entrare in quel “tempo della sospensione” che è il tempo dell’arte, l’unico in cui – così Punzo – “possono avvenire cose che normalmente non avvengono”. Spogliati delle ultime resistenze, lì sulla soglia, gli spettatori acquistano la “leggerezza pensosa” richiesta per compiere questo viaggio “oltre al limitar di Dite”, che non porterà nella fossa dei serpenti, nella dimora dei reietti, ma in un avvincente viaggio nelle infinite potenzialità e possibilità cui può aprirsi l’animo umano.
Silenzioso, un uomo dal viso e dall’abito dipinti a scacchi bianchi e neri [photo: Paolo Pacini] che potrebbe essere uscito da un quadro surrealista esce dal portone del carcere e si aggira lentamente tra i giovani attori-ballerini. Si guarda intorno e con il grande orecchio bianco che tiene tra le mani cerca di captare i rumori della città: grida di gioia e di dolore, parole di scherno o di benevolenza, parole che uccidono o che danno la vita, astiosi borbottii o sapide conversazioni. L’uomo a scacchi chiama a sé i bambini, uno alla volta, e affida loro un compito, sussurrato nelle orecchie, quello di diffondere tra il pubblico, attraverso un passaparola, anch’esso discreto, impercettibile come un battito d’ali, il messaggio chiave del Festival: “Mercuzio non vuole morire”. La frase si spande velocemente tra la folla, mentre l’uomo a scacchi continua a tenere in ascolto il suo grande orecchio bianco. Lo stesso orecchio che, rientrato in carcere, più tardi ascolterà le voci della Compagnia della Fortezza, gli applausi entusiasti di detenuti e pubblico, seduti insieme, gli uni accanto agli altri, in una vicinanza per molti fino a quel momento del tutto impensabile; lo stesso orecchio che, alludendo a chi è chiuso nelle celle o è rimasto fuori, in città, oggi e nelle altre giornate del festival, non potrà fare a meno di ascoltare le voci, i suoni, i rumori che provengono da questa gigantesca fucina d’arte. Tutti, nel bene o nel male, dopo queste straordinarie giornate non potranno più rimanere indifferenti. Il passaparola è ormai inarrestabile: “Mercuzio non vuole morire!”.
Mariella Demichele
Volterra, 29 luglio 2011
Provaci ancora
Il quattro Marzo 2011 Il CinemaTeatroLux di Pisa vede andar in scena Provaci ancora [photo], vincitore del premio Udine 2010, di e con Francesco Cortoni accompagnato da un’eclettica Silvia Lemmi. Si tratta di un inno all’amore. Ma di quello impossibile. Forse il più romantico. E spunto di questo sentimento così straziante, perché inafferrabile nella sua completezza, saranno i due personaggi shakespeariani di Romeo e Giulietta. E’ dalle loro morti, infatti che ha inizio lo spettacolo, con un gioco metateatrale in cui, colui che interpreta Romeo, con un candelabro in mano, posizionato sul corpo di colei che giace nei sonni più tranquilli, Giulietta, esorta il pubblico ad entrare per assistere al vero sposalizio tra i due amanti: lo sposalizio di cui parla è la morte. Morirà Romeo, come di copione, bevendo un goccio di veleno pronunciando la famosa battuta "E così con un bacio io muoio" (Atto 5 scena III); quando Giulietta si sveglia, trovando l'amante morto accanto a lei, si trafigge con il pugnale di Romeo. Ma noi vediamo in realtà due marionette “craigiane” su un proscenio, che si muovono come tali e senza modulazioni di voci. E che si rialzeranno per prendersi l’applauso e dare vita alla vera “tragedia o commedia” (perché sarà questo il leitmotiv dell’intera performance). Non abbiamo più a che fare con Romeo e Giulietta ma con Giannozzo e Mariotta, due comuni amanti dei nostri tempi che vivono dentro un circo, che riecheggia il mondo cinematografico felliniano in Otto e mezzo. Altalenando a momenti di comicità intensa a momenti di drammaticità acuta, si respira un’aria di malinconia e tristezza perché i due amanti non riescono a trovare, come Romeo e Giulietta, quei necessari punti d’incontro in una coppia per vivere in armonia e serenità una storia d’amore terrena. Ed è proprio dietro al tendone di un circo che i due discutono, lasciando intravedere a noi solo le loro ombre/anime disperate, alla continua ricerca di una felicità in UNO che pare non essere raggiunta. Mentre fuori dal tendone c’è la farsa dello spettacolo che continua, perché deve continuare agli occhi degli altri: uno “spettacolo che deve riuscire bene”; ma nemmeno quello avrà successo. Chi ne ha sempre preso consapevolezza fin dall’inizio sarà Mariotta. Appare come il personaggio di Sonja nello Zio Vanja, opera cechoviana: innamorata, ma addolorata, rassegnata alla realtà terrena Donna innamorata, ma sofferente per il mancato raggiungimento della felicità terrena con il proprio compagno, decide di rompere la farsa, e di dare il via libera alla tragedia, la stessa shakesperiana. E come in un rito, lento, doloroso, ma necessario, i due andranno insieme incontro alla morte ritrovandosi a cantare un Meraviglioso di Domenico Modugno, senza nessuna movenza scenica. Rimangono lì fermi, uniti, sul quel proscenio che li ha visti recitare all’inizio una farsa di una tragedia (o commedia?) shakespeariana. Ma ora sono protagonisti di una loro esigenza di ritrovarsi insieme dettati dal sentimento dell’amore. Felici? No? Non lo sappiamo. Ma sappiamo solo una dolce melodia che fa da contrasto alla fine di due vite, nella realizzazione di una morte , necessaria. [Maria Francesca Stancapiano]
[vintage] La decadenza di Krapp
Visto a Prato, Teatro Fabbricone, il 18 novembre 2003
Giancarlo Cauteruccio torna al Teatro Fabbricone per la sua seconda messa in scena di L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett. Il tentativo di interpretare il disagio esistenziale del protagonista diventa per il fondatore della Compagnia Krypton un pretesto per mettere in scena la sua vita, nel teatro. Cauteruccio “sente” il testo, lo fa suo, lo usa per rappresentare qualcosa che gli appartiene. Lo fa attraverso alcune scelte registiche moderne, non convenzionali, di impatto: la pantomima della preparazione del piatto (diverso ogni sera), la variazione in dialetto calabrese del monologo finale e il progetto scenico con gli oggetti in movimento. Cauteruccio-Krapp, prima di dedicarsi ai suoi nastri, impiega circa venti minuti, mugolando e gesticolando, per cucinare un piatto di pasta che dividerà con uno spettatore. Mentre divora quel piatto mostra l’avidità, la fine delle speranze, la solitudine di un uomo chiamato a fare, ancora una volta, i conti col passato. Questo preambolo e questa azione diretta al pubblico rappresentano il prologo dell’atto unico beckettiano, che si riduce ad un dialogo fra il vecchio protagonista e le registrazioni della sua voce più giovane. Cauteruccio mette a nudo il suo personaggio, si espone: “questo sono io, sono Krapp” sembra dire mentre prepara da mangiare “e voglio che tutti lo sappiano e dividano con me il mio dolore e le mie angosce di uomo solo”. Finito il pasto il cucinotto sparisce e il protagonista avanza dal fondo della scena seduto davanti ad un grande tavolo colmo di scatole di cartone e con un magnetofono in evidenza. Krapp riascolta ciò che aveva registrato trenta anni prima, nel giorno del suo trentanovesimo compleanno. Riascoltando il nastro riaffiorano quei sogni svaniti, quelle illusioni, quelle scelte sbagliate. Il nastro riporta Krapp indietro nel tempo: alla morte della madre, alla sua storia d’amore respinta, alla sua carriera letteraria infelice. Il succo dello spettacolo è proprio la crisi del rapporto tra uomo e macchina, tra memoria umana e memoria registrata e riprodotta, tra realtà vera e realtà mediatica. L’ultimo nastro di Krapp diventa simbolo di questa crisi che Beckett ha affrontato precorrendo i tempi. La memoria registrata si contrappone a quella reale in un gioco che serve a far ricordare Krapp, ma lo stato d’animo del presente è molto più smarrito rispetto a quello del passato. Quindi la tecnologia è vista qui come un male, come un nemico, come un qualcosa che ferisce ma che è estremamente reale. Krapp fa i conti con la realtà grazie al progresso. Queste sono le tematiche care a Cauteruccio e al suo background di teatrante tecnologico e sperimentatore. Una tecnologia che è appunto chiave di lettura e che si esalta nei dolci movimenti dei quattro oggetti che fanno da contorno alla scrivania. Questi oggetti, che si muovono e respirano ogni volta che il protagonista esce di scena, sono il deposito di memoria di Krapp, sono il suo passato che respira. A questo “vecchio sfatto”, con “un paio di stupefacenti stivaletti bianchi”, non resta altro che mandar giù banane e whisky e lasciarsi andare alla fine dei suoi giorni, in un crescendo continuo di decadenza fisica, mentale e morale. La parte finale del testo è stata riscritta in chiave dialettale come molte delle produzioni dei Krypton. Questa operazione sembra quasi fatta apposta per celare al pubblico l’epilogo della vita di Krapp, ormai condannata a una piatta fine. Le musiche e le elaborazioni vocali sono eseguite dal vivo, le luci sono protagoniste. Il pubblico assiste a questo gioco di pieni e vuoti, di pause e riflessioni ad alta voce, di lenti movimenti e rumori assordanti. Noia e riflessione da parte di un grande uomo di teatro.
Compagnia Krypton
L’ultimo nastro di Krapp
di Samuel Beckett
diretto e interpretato da Giancarlo Cauteruccio
musiche ed elaborazioni vocali composte ed eseguite dal vivo da Andreas Froba
progetto scenico di Giancarlo Cauteruccio
progetto luci di Roberto Innocenti
Lampada incandescente per un corpo evanescente
C’è un corpo importante di donna, statuario, magnifico, sofferto. Lo si trova nel riflesso di un’ombra, nel decoro della luce stagliata sulla parete di fondo, nella forma effimera che muta e (si) rigenera. Si manifesta di fronte allo sguardo di chi s’interroga e scruta l’accadimento sulla scena, in cui si susseguono il tempo e lo spazio di un corpo in mutamento, tra lo scuro e il chiaro, nelle privazioni di sfumature che si confondono l’une nelle altre, fugaci come la bellezza che interpretano e veloci come istantanee della condizione umana, che sempre sfugge alla propria originaria funzione mortale.Figura femminea che si copre e si riscopre nel buio che dissimula, appare come coscienza fisica che dichiara la propria fragilità e forza a un tempo – schiacciata tra l’affermazione della sua stessa presenza in prospettiva e il sottile desiderio di cadere nella bidimensionale anonimia del quotidiano. Rispecchiandosi nel proprio doppio privato di luce, esplora allora le possibilità concessale dalla creazione, segue il filo della scoperta prometea difendendo la propria primaria venuta. Al mondo e alla Storia. Nella dimensione della menzogna insegue quelle verità che le epoche le hanno cucito addosso, come ombre sulla pelle, tra costumi di seta ed eretiche vampate.Creatura creata, creatrice, matrice in movimento tra le giravolte di un valzer solitario, dipana le tenebre della sua leggenda dichiarando la fuga, fino a perdere il fiato, fino a nascondersi alla vista dell’altro (il pubblico, la doxa), che in silenzio, da secoli, esercita su di lei il suo controllo.
Così vicina al presente del nostro sguardo, la prima donna si sforza di rincorrere la sua buia effige sottile, tentando vanamente di affermarsi nella logica del controluce. In questa necessità reiterata di riconsegnarsi a un ruolo, il nodo si scioglie attraverso la logica iconografica della visione, che contemporaneamente dichiara l’impossibilità del compito: allora lo scopo si scioglie in suono e candore, nella consolazione di una sensorialità tentata e offerta a se stessa e allo spettatore immerso nell’ombra – quell’altra, della parete crollata.
Nella tensione di questo corpo scisso tra il rivelare la propria esplosiva natura e l’istintiva ritrosia di fronte al nuovo da se stesso prodotto, si consuma la dinamica dell’azione in cui il femminile si trova protagonista indiscusso: individuati i ruoli nella Storia la scena ne accoglie la fortuna, e ne narra per immagini lo spirito diversamente appellato. E’ una femmina madre, una donna del mito ma anche bambina vezzosa, guizzo di carne alla luce del fuoco e corpo esposto nella vetrina del proprio intimo quadro domestico.
Con le membra che si mostrano nude allo sguardo, chiuse nel frastuono di notti metropolitane e claustrofobiche attese, l’oggetto della visione ostenta la sua stessa accecante visibilità. La sua volontà di prigionia ammette il desiderio di lasciarsi osservare, simulacro santo e profano di un idolo caduto, che gioca la sensualità senza viverla, salvaguardando così l’ultimo brandello di angelicata funzione. O finzione.
Giulia Tonucci
LAMPADA INCANDESCENTE
spazio: Giulia Pastore
corpo: Francisca Rivas
suono: Diego Fontecilla
occhio: Cosimo Terlizzi
[vintage] Un pappagallo metateatrale
Prato, Teatro Metastasio, novembre 2003
Un pappagallo viene calato dall’alto. Ripete con voce artificiale, metallica, lo stesso ritornello: realtà – finzione, realtà – finzione. Il significato del nuovo allestimento di Carlo Cecchi si concentra tutto in questo finale anomalo, incerto, colorato come le piume del pennuto.
Il rito dei sei personaggi senza autore richiama ogni volta l’attenzione di critica e pubblico, e anche la prima rappresentazione stagionale del Teatro Metastasio di Prato ha fatto registrare un consistente numero di spettatori. Cecchi lo sa, e mette in scena il testo senza metterlo in scena: con le mani del regista-capocomico muove sulla scacchiera gli attori-pedina. E’ un istrione che, vagando e ondeggiando sulla scena con la bombetta, il bastone e il suo accento farsesco e dialettale, prova ad annullare i suoi personaggi attraverso la cattiva recitazione dei suoi attori che, fatta eccezione per il bravo Paolo Graziosi (che interpreta il padre) e per pochi altri, non sembrano all’altezza del testo messo in scena. La domanda, forse provocatoria, è: sono attori che davvero non sanno recitare o Cecchi ha chiesto loro esplicitamente di recitare con sufficienza per creare confusione, sconcerto e clamore tra gli spettatori? Per fortuna che c’è questo limite, questa soglia tra vero e falso, tra vita e rappresentazione: una sorta di “pappagallo metateatrale” che svolazza sulla scena catalizzando l’attenzione del pubblico in sala. Un pubblico che guarda gli attori che guardano i personaggi recitare la propria vita, incapaci di uscire dalla loro costrizione a ripetere ma ansiosi di trovare finalmente un punto di fuga: un autore che, scrivendo la loro storia, li conduca all’immortalità.
Nel dramma si concentra l’eterno scontro tra arte e finzione, tra attori e personaggi, gli uni rosso porpora e gli altri grigio fumo di Londra. Esso rispecchia il limite del teatro, fatto di artificiosità e incapace di arrivare ad alcun tipo di verità pura mettendo in discussione la propria stessa natura e quella dell’uomo contemporaneo.
L’inizio è promettente: il palco di un teatro con una compagnia che prova Il giuoco delle parti di Luigi Pirandello, il regista, gli attori, i tecnici, il suggeritore e il suggeritore del suggeritore; un’insensata struttura mobile circolare utilizzata solo una volta, due enormi appendi-abiti di sfondo, una valigia al centro della scena che diverrà il centro stesso della scena.
La scelta registica della valigia è un’ ottima soluzione per affrontare quello che per Pirandello è stato uno dei maggiori problemi di messa in scena: lo affrontò nella prima versione facendo accompagnare i personaggi dall’usciere del teatro. Poi, vedendo le interpretazioni di altri registi, nel pieno della riforma teatrale del 900 (con il conseguente annullamento della quarte parete e delle barriere tra palco e sala), nella successiva versione i sei personaggi salirono direttamente dalla platea.
Dalla fatidica valigia di Cecchi escono quindi i cinque attori-personaggi, bui e grigi, ansiosi: il padre incestuoso, la madre infedele, la figliastra spavalda, il figlio legittimo abbandonato dalla madre, il giovinetto senza parole e con la pistola, la bambina ridotta a una bambola di legno. Proprio la bambina, fulcro del dramma pirandelliano, che fa precipitare la tragedia con il suo annegamento, è eliminata da Cecchi che la riduce a una bambola muta.
Ma il personaggio decisivo del dramma familiare risulterà Madama Pace, il settimo personaggio della storia infinita. E’ lei che causa il nuovo incontro tra il padre e la sua figliastra di facili costumi, incontro che causerà tutti i mali successivi fino al terribile finale.
Cecchi e Pirandello, aiutati dai loro fedeli cinque, sei o sette personaggi, mettono in scena il dramma della vita, della famiglia e della difficoltà dei rapporti interpersonali, unito al dramma del teatro novecentesco in crisi di identità, in bilico tra realtà e finzione.
Sei personaggi in cerca d’autore
di Luigi Pirandello
regia Carlo Cecchi
scene e costumi Titina Maselli
luci di Paolo Manti
con Carlo Cecchi. Luisa De Santis, Paolo Graziosi, Angelica Ippolito, Antonia Truppo, Francesco Ferrieri, Cecilia Finetti, Federico Olivetti, Alessandro Baldinotti, Isabella Carloni, Paola Giorgi, Paolo, Mannina, Rino Marino, Stefano Tosoni
produzione Teatro Stabile delle Marche/Teatro Mercadante Stabile di Napoli