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La Borto: storie di ordinaria disperazione

Vittoria/La Ruina ci racconta, anzi racconta a Gesù, con estremo candore e semplicità, la storia sua e delle altre donne del paese, storia di privazioni e di disperazione, storia di un sud retrogrado e maschilista dove l’unico destino delle donne è subire: il matrimonio, i figli, la propria femminilità, la menomazione del proprio corpo, tutto. Ma lo fa con un’impensabile ironia e consapevolezza, con il suo intercalare da tipica donnina meridionale con le ciabattine che continuamente vanno su e giù lasciando intravedere il calzino azzurro. L’unica risorsa è la solidarietà tra queste donne che combattono “una guerra senza armi dove non ci sono vincitori e vinti ma solo morti e feriti” dove l’aborto fatto in casa, dalle mammane o medichesse, con il ferro da calza e il prezzemolo non è una scelta, ma un male inevitabile per evitare mali peggiori.
La Ruina ci lascia sentire con estrema efficacia e umanità l’atmosfera opprimente e il dolore fisico e morale vissuti da queste donne vittime degli uomini e dell’ignoranza. La scena è scarna, essenziale, il monologo inizia in punta di piedi per poi coinvolgere il pubblico con la sua drammatica leggerezza nonostante non sia facile da seguire per chi non conosca almeno i rudimenti del calabrese.
Ma quando Vittoria racconta della nipote, che anche lei vuole abortire, “ma questa volta in un ospedale pulito e sterilizzato”, viene da riflettere che le due vicende non sono paragonabili e che oggi una ragazza di quindici anni può scegliere, può informarsi, non è costretta a sposarsi adolescente, può prendere precauzioni, può evitare il destino della nonna. Ma forse non in un paesino del remoto sud?
Orgy of Tolerance. L’opera d’arte totale di Jan Fabre

Da questi temi prende vita l’opera d’arte totale di Jan Fabre, il cui genio artistico ha avuto la definitiva consacrazione con la mostra personale al Musée du Louvre di Parigi (L’Ange de la métamorphose, 2008). Il suo Orgy ha tutto: un testo originale, dissacrante, moderno e pungente. Ambientazioni eleganti, scene da quadri di Edward Hopper. Luci perfette. Musica dal vivo rock, rap e non solo, recitazione multilingua e danza di alto livello per gli artisti totali della compagnia, col fucile perennemente a tracolla in attesa di non si sa quale guerra. Danzano sui divani Chesterfield (simboli della sicurezza domestica ma anche simboli estetici fine a sé stessi) e danzano anche i carrelli del supermercato. Si scorre verso il finale pirotecnico dove gli attori si uniranno per un vaffanculo a tutto il mondo, liberatorio come liberatoria sarà la danza di chiusura confusa e poetica.
Un pamphlet con la tagliente arma dell’autoironia. Un teatro totale, un orgasmo teatrale. Penso a certi registi nostrani, penso provocatoriamente di chiudere col teatro. Non credo che vedrò più niente di simile. Avrei concluso in bellezza.