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Cronache poco teatrali da Primavera dei Teatri

La XIII edizione di Primavera dei Teatri si è spostata, suo malgrado, al ponte di Ognissanti: una “fioritura tardiva” come si legge nel comunicato stampa. Come ogni anno la selezione ha virato a favore del teatro di parola e della nuova drammaturgia, con alcuni esperimenti interessanti. Ma più che per la qualità degli spettacoli (ne ho visti sei, nessuno eccelso), Primavera dei Teatri ha il merito di costruire intorno a sé, in primavera come in autunno, un clima teatrale unico, in un misto di impegno e leggerezza come raramente si trova.

Il merito va soprattutto all’affiatato trio che da anni è alla testa del festival: i tre moschettieri di Scena Verticale Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano. La loro capacità di farti sentire a casa e nello stesso tempo tessere relazioni tra i partecipanti è straordinaria. A questo si somma un misteriosa ubiquità che fa sì di trovarli ovunque!

Il miracolo Castrovillari si sviluppa nel luogo simbolo del dopo festival, l’Osteria La Torre Infame che fino a tardissima notte sforna piatti della tradizione castruviddàra più genuina: peperoni cruschi, casu fusu, gnocchi, patate ‘mblacchiate e salsicce in tutti i modi, ma anche pietanze più particolari come gli spaghetti al fuoco di bacco (piccanti cotti al vino rosso). Anche il servizio è “casereccio” ma va bene così! Le lunghe cene nelle tavolate tra operatori a base di teatro trovano quindi un conforto gastronomico di tutto rispetto!

Come valida alternativa, sempre a due passi dal Protoconvento francescano (affascinante edificio realizzato nel XIII secolo e diventato negli anni centro culturale del paese nonché quartier generale del festival) e dal Castello Aragonese, sorge la Trattoria Primavera (ma non sono sicuro che si chiami così) ovvero la versione gastronomica rustica dei temporary shop delle grandi città: un luogo di ristoro sorto apposta per il festival, una casa-ristorante d’altri tempi, il paradiso della convivialità e del relax dopo ore di teatro. Menu fisso: tagliatelle cu’ ciciri (ceci), costine al sugo, cantucci, liquirizia (il liquore simbolo della zona). Il tutto annaffiato da un interessante vino rosso della casa. Nell’unica sala dell’ambiente si sta stretti ma consapevoli della insolita e stimolante esperienza di cibo e allegria.

Ma non è finita: la notte di Castrovillari continua tra i palazzi fatiscenti della civita (il borgo antico) e della Giudecca (l’antico quartiere ebraico). Dopo cena il passaggio obbligatorio è alla Sartoria, “situazione off” si legge sul suo profilo facebook. Quella che forse era o è tuttora una vera sartoria trasformata in spazio espositivo e conviviale. Il tempo sembra essersi fermato dentro la piccola cucina dove “il Sarto” accoglie i suoi ospiti mentre personaggi simpatici e una ragazza giapponese (!) ti offrono cachi alla cannella, castagne, vino rosso, uva fragola, mele, torte di cachi, mandorle e nocciole. Un delirio del benestare, un’esperienza da gustare con tutti i sensi.

Si fa tardi alla Sartoria, incuriositi dai bizzarri allestimenti delle sale adiacenti la cucina e immortalati dal fotografo ufficiale che l’indomani farà dei fotomontaggi utilizzando le foto come copertina di improbabili edizioni del Time o di El País. C’è anche una colonna sonora ambient che crea il necessario contrasto con l’ambiente rustico. Si fa P.R. nel vicolo, ma si ride e si scherza soprattutto, per non prendersi troppo sul serio. E nel clima generale di leggerezza c’è anche chi si mette addosso gli abiti femminili esposti in Sartoria!

Primavera dei Teatri riesce ogni anno a far sentire a casa “nel paese” il mondo del teatro (a Castrovillari il numero di operatori e critici presenti è notevole). Alla Sartoria, ovviamente, accorrono anche i boss di Primavera dei Teatri a confermare la loro ubiquità, per l’ultima chiacchierata, l’ultima bevuta, l’ultimo gesto d’intesa di una lunga e faticosa giornata di festival.

Simone Pacini

La Borto: storie di ordinaria disperazione

Saverio La RuinaLa Borto, portato in scena da Saverio La Ruina [photo: teatrodiroma.net] in prima nazionale al Teatro India di Roma, è il simbolo della violenza fisica e psicologica perpetrata sul corpo delle donne. Il contesto è la Calabria povera e arretrata di qualche decennio fa dove gli uomini stanno al bar a giocare a carte e a squadrare le “femmine” e le donne devono arrangiarsi con l’unico aiuto dei santi che poi spesso non funziona poi tanto.
Vittoria/La Ruina ci racconta, anzi racconta a Gesù, con estremo candore e semplicità, la storia sua e delle altre donne del paese, storia di privazioni e di disperazione, storia di un sud retrogrado e maschilista dove l’unico destino delle donne è subire: il matrimonio, i figli, la propria femminilità, la menomazione del proprio corpo, tutto. Ma lo fa con un’impensabile ironia e consapevolezza, con il suo intercalare da tipica donnina meridionale con le ciabattine che continuamente vanno su e giù lasciando intravedere il calzino azzurro. L’unica risorsa è la solidarietà tra queste donne che combattono “una guerra senza armi dove non ci sono vincitori e vinti ma solo morti e feriti” dove l’aborto fatto in casa, dalle mammane o medichesse, con il ferro da calza e il prezzemolo non è una scelta, ma un male inevitabile per evitare mali peggiori.
La Ruina ci lascia sentire con estrema efficacia e umanità l’atmosfera opprimente e il dolore fisico e morale vissuti da queste donne vittime degli uomini e dell’ignoranza. La scena è scarna, essenziale, il monologo inizia in punta di piedi per poi coinvolgere il pubblico con la sua drammatica leggerezza nonostante non sia facile da seguire per chi non conosca almeno i rudimenti del calabrese.
Ma quando Vittoria racconta della nipote, che anche lei vuole abortire, “ma questa volta in un ospedale pulito e sterilizzato”, viene da riflettere che le due vicende non sono paragonabili e che oggi una ragazza di quindici anni può scegliere, può informarsi, non è costretta a sposarsi adolescente, può prendere precauzioni, può evitare il destino della nonna. Ma forse non in un paesino del remoto sud?
Dafne Mauro